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Io e il chador:
calori, sudori e rabbie
di un'italiana in Iran

 

Per me, utente di un viaggio organizzato, l'Iran comincia con la vestizione collettiva all'imbarco del volo Roma-Teheran. Cento maschi italiani con sorrisetti antipatici contemplano centocinquanta e più italiane femmine impegnate a indossare l' "abbigliamento islamico" obbligatorio per poter andare in un paese integralista: camicioni di lino ultima moda, spolverini sfiziosamente informi, belle giacche su vestitoni lunghi, e poi via con l'operazione "capo coperto": scialletti, vezzosissime sciarpe, fularini firmati in seta pura. Qui ci fermano tutte alla dogana e, o ci sbattono dentro, o ci rimandano indietro su due piedi, ho pensato, convinta di aver fatto un madornale errore a non voler viaggiare da sola come al solito. Ma a Teheran, scivolata tra le mani pesanti di un paio di poliziotte e uscita indenne dallo sgabuzzino delle perquisizioni, scopro che non avevo ragione: il mio gruppo, composto di quattordici italiani appena, è ben deciso a prendere sul serio lo slogan pubblicitario dell'agenzia: "nel mondo con stile".

E per due settimane, infatti, siamo tutti inflessibili sulla qualità degli alberghi eppure dispostissimi a irrigare il deserto quando la toilette più vicina è a duecento chilometri di pullman, tutti calamitati da negozi e bazar eppure puntigliosi nell'estorcere alle guide locali informazioni esatte su politica degli ayatollah, sufismo, mazdeismo, minoranze e usanze culturali... In Iran il tè si beve mettendosi lo zucchero tra i denti? Eccoci ad addentare le zollette. In Iran da qualunque parte esista un filo d'ombra c'è sotto un tappeto e sopra il tappeto c'è una famigliola iraniana che fa il picnic? Giù subito anche noi a mangiare sul tappeto, e pazienza se dobbiamo contendere lo yogurt a uno sciame di vespe.

In quindici giorni ci siamo fatti tutte le moschee, giardini, mausolei, scuole coraniche, rovine di Persepoli e caravanserragli restaurati a nuovo, montagne erose e torri funerarie in disuso, a un ritmo da stroncare un cammello e trovando anche il tempo di attaccare bottone con qualunque persiano o persiana mostrasse uno spiraglio di disponibilità. Il territorio dell'Iran è, geograficamente, maestoso. I religiosi in turbante e mantello sembrano tanti quanti erano gli Immortali dell'Imperatore Dario (morto uno, ce n'è subito un altro che lo rimpiazza) ma, sbirciati di passaggio, non disturbano l'ambiente. Le persone comuni sono, con gli stranieri, sommamente cortesi. Dunque, perché dopo una settimana ho cominciato a non poterne più e alla fine dei quindici giorni ho esultato all'idea di tornarmene a casa? Certo non solo per la fastidiosa e costante consapevolezza che sotto il "nuovo corso" avviato in Iran dal cauto leader riformista Khatami la condanna a morte emanata dagli ayatollah contro lo scrittore Salman Rushdie, colpevole di libertà di espressione, è stata sì sospesa ma non è stata ancora cancellata...

La prima sera, mentre ci avviavamo a strappetti e singhiozzi verso il primo albergo nel traffico melmoso di Teheran, su otto delle nostre quattordici teste pensanti i capelli si sono lentamente drizzati sotto il foulard. Otto teste di donna occidentale alla ricerca di notizie vere sulle donne iraniane constatavano che, sì, la patente ce l'hanno. Però, guarda quell'autobus!, davanti stanno seduti gli uomini, mentre tutte le donne stanno dietro. Ufficialmente, la separazione è un segno di rispetto per le signore e dovrebbe evitare le molestie sessuali: ma questi mezzi pubblici bicolori, davanti tutto un bianco di camicie maschili e dietro tutti neri di donne, a noi ricordano con una precisione preoccupante il Sudafrica dell'apartheid, la vecchia Alabama razzista.

Nel Luna Park di fronte al nostro albergo, anche le giostre sono separatiste: prima imbarcano solo adolescenti maschi e, al turno dopo, un carico di sole ragazzine. In cambio, nella folla ci accorgiamo che non è vero che le donne iraniane siano tutte obbligate al chador nero. Almeno una su cento lo porta a fiorellini grigi su grigio, una su venti non lo porta affatto: porta invece una specie di spolverino nero, grigio oppure azzurrognolo, o perfino verdastro, che rivela gambe di pantaloni.

Queste donne che indossano il "purdush" lo coronano o con un banale foulard o con il "makhnae", un cappuccio drappeggiato che per noi assomiglia preciso a un soggolo da suora, in una gamma di colori che va dal nero al verdone e al blu cupo, passando per un marroncino slavato e, addirittura, un rosso addormentato.

Nel giro di due giorni ci renderemo conto che portano il makhnae le impiegate, le hostess, le commesse, le annunciatrici televisive, praticamente tutte le donne che lavorano: sarà dunque più comodo dei normali foulard? Ci farà prudere un po' meno la cute nonostante lo shampoo quotidiano? Al bazar di Shiraz, mi trovo tra le mani un coso strano di cotone triangolare. Come si indosserà?

A rigirarlo da tutte le parti, è un semicerchio di stoffa piegato a metà e cucito su un lato per quasi tutta la lunghezza... Una matrona in chador e borsa della spesa mi sta fissando, poi se ne ferma un'altra, poi un'altra, in tre minuti sono in mezzo a un crocchio di donnone che mi fanno dei segni e berciano tra loro, partecipi, avvilite dalla mia incomprensione, finché una mi acchiappa e mi infila la faccia nel triangolo di stoffa, ah, ecco come si fa: il makhnae va indossato a rovescio insinuando la faccia nel breve tratto aperto, poi si rivolta il lembo che ti penzolava davanti agli occhi e il gioco è fatto, sei una suora. Però, questo soggolo stringe tanto che urlerei, se riuscissi ad aprire la bocca...

Una delle matrone gesticola, tirando tra le dita una gugliata invisibile: "Scucilo", messaggio ricevuto, grazie. Un makhnae va adattato a misura della propria faccia, e infatti dopo averne scucito un pezzettino mi ci sono sentita quasi bene: permette la circolazione dell'aria tra collo e spalle, cioè, un filo almeno...

 

Convertite quasi tutte al makhnae, noi otto monachine nere o verdone (nove includendo l'accompagnatrice archeologa che il makhnae ce l'ha in testa dal primo giorno, la furbona) cominciamo a scrutare con sussiego le turiste degli altri gruppi: raffazzonate, sciamannate, e guarda quelle lì, le giapponesi! maniche corte, ciabattine, un'indecenza... Mioddio, ma che ci piglia?

Sarà che negli alberghi, all'ingresso dei musei, in ogni ristorante c'è un vistoso cartello con il disegno di una testa femminile velata a ricordarci che questa prescrizione religiosa è, qui come in Arabia o nell'Afghanistan dei Talibani, una legge di Stato. Istituendo la teocrazia in Iran con la "rivoluzione islamica" del 1979, l'ayatollah Khomeini decretò per le donne non velate una pena di 74 frustate, e i pasdaràn "custodi della rivoluzione" fecero rispettare brutalmente il decreto.

Oggi ci dovrebbe pensare la "polizia morale", ma negli ultimi due anni i controlli si sono allentati e addolciti: qualche ciocchetta di capelli sfugge, difficilmente vengono prese di mira le turiste. Per precauzione, a noi la guida somministra ogni mattina un bollettino sul grado di copertura necessaria: si va in città?, ecco calare sulle teste l'ermetico makhnae; ci tocca un'escursione nel deserto?, via libera alle sciarpe svolazzanti.

Comincio a odiare gli uomini, che se ne stanno freschi, tutti nudi in camicia e pantaloni. Dentro il pullman, chiudendo le tendine, potremmo sonnecchiare per chilometri a capelli del tutto scoperti, come loro, ma sulle strade i posti di blocco sono tanti che dopo un po' l'avviso "Donne, polizia in vista, copritevi!" diventa un tormentone. Al decimo risveglio con sussulto, sbotto: "Va bene se mi copro bestemmiando?".

Nel Corano, in realtà, non c'è niente che imponga di velare le donne o segregarle. Il famoso versetto 59 della sura 33, "O Profeta! Di' alle tue spose e alle tue figlie che si ricoprano dei loro mantelli; questo permetterà che si distinguano dalle altre e non vengano offese", si riferiva in origine solo alle donne della famiglia di Maometto.
L'usanza era più antica: il velo, nato come difesa contro il sole e contro le aggressioni, al tempo degli Assiri e dei Babilonesi (ma anche dei Greci, dei Romani e poi dei Bizantini) era un segno di distinzione sociale: potevano portarlo le libere, le ricche, le sposate. Era proibito invece alle schiave. Naturale che Maometto lo volesse per innalzare lo status delle sue signore.

Molto meno naturale che gli integralisti islamici come il defunto Khomeini e il suo successore Khamenei pretendano di far rivivere la lettera del loro Libro Sacro mentre quello che fanno è riesumare un costume pre-islamico: il manto azzurro della nostra Madonna è un chador pari pari, solo più a buon mercato. L'indaco azzurro-cielo costava poco, allora, mentre il nero d'inferno era tra le tinture più pregiate.


Sotto un sole spietato che sbianca il color ocra dei mattoni di fango, girovaghiamo tra le antiche mura della città di Yazd. Marco Polo è passato di qui sulla Via della Seta, potrebbe aver toccato questo stesso picchiotto di bronzo arroventato che io sfioro sulla porta di una casa, indecisa: questo di destra o questo di sinistra? Ce ne sono due, infatti.
Uno è rotondo e l'altro è ciondolante, a usarli per bussare danno un suono diverso: dall'interno si poteva capire così, a orecchio, se a chiedere di entrare era un uomo o una donna. Ma io non so quale simbolo corrisponde al mio sesso. Tenderei a giudicare femminile il batacchio rotondo, però forse alle donne qui spettava per contrapposizione il batacchio pendente... Fa troppo caldo per pensare, e inoltre anche se busso nessuno mi aprirà, la città è un guscio vuoto per turisti.

 

No, mi sbagliavo: arriva sferragliando una motocicletta, cavalcata da un ragazzo curioso. E, dal vicolo dopo, si solleva un rumore di passi velocissimi. Mi affaccio, è una bambina di undici o dodici anni, sta correndo e il chador le vola dietro gonfiandosi nel vento della corsa come un'ala di corvo o un aquilone nero. Mi vede, si è fermata, fa un sorriso confuso e si racchiude compuntamente nell'involucro di stoffa.
Troppo facile dire che si è chiusa in un macabro sudario, eppure è proprio quella l'impressione che fa. La ragazzina si è spenta all'istante, è sparita, mangiata dal chador.


Tredicesimo giorno. Non l'ho ancora provato, il chador. Mi fa paura, specialmente da quando ho scoperto che non sostituisce il velo ma vi si sovrappone, coprendo il già coperto. Però uno mio ce l'ho, l'ho comprato: è una specie di tendone ("chador" vuol dire proprio questo: tenda) che oltre a essere nero è in tessuto sintetico, non traspirante. Saranno tutte sceme, le iraniane? No, loro no: con una certa stizza da acquirente imbrogliata, mi sono accorta presto che i chador loro sono tutti fatti di pura cotonina o di un crespo di seta leggerissimo. Ma pure le iraniane sudano. A Isfahan, mentre affranta me ne stavo accasciata in un giardino, mi ha circondata un gruppo di fantasmine nere: nonna, madre e figliole con nipotine in gita di istruzione. Mi studiano benevole.Io mi passo due dita nel soggolo e sbuffo, le due anziane ridacchiano e alzando gli occhi al cielo si scalmanano a sollevare i lembi dei chador, mimando un "Caldo lei? Sapesse noi!". Siamo finite tutte e tre, sudatissime, sul prato a farci fare una fotografia ricordo dalla più tecnologica delle nipotine.

 

A sette anni le piccole iraniane cominciano a portare un makhnae teneramente bianco, ma qualcuna scompare già sotto un chadorino fermato da un elastico ben nascosto. Dagli undici-dodici anni in poi, più nessuna userà nessun fermaglio: è una questione di stile, il chador deve reggersi da solo. Ed è un problema grosso, perché mica ha le maniche: è una semplice cappa a mezza ruota, che più te la sistemi più ti scivola giù, ininterrottamente, inesorabilmente, a meno di... Sì, tenendolo fermo, chiuso con una mano, il chador resta su. Ma quella mano è persa per qualunque altro uso. Capisco come mai le donne che lavorano non lo portano più. Ma, e le altre, quelle tante che lo portano, e insieme - ve lo giuro, le ho viste - portano un paio di borse, un bambinetto e magari anche un mazzo di fiori o di cipolle, come faranno? Devo sperimentarlo
Così, arrivata nella città santa di Mashhad, ora o mai più: indosserò il chador in questo luogo di pellegrinaggio che, a giudicare dai souvenir in vendita nel bazar e tradotti i tappetini da preghiera in bottigliette a forma di madonna, sembra l'equivalente islamico di Lourdes. Scivola, oh sì se scivola.

Ma osservando e imparando domerò questo viscido indumento: bloccandolo dai lati e aggrovigliandolo sotto le ascelle si riesce perfino a liberare ogni tanto una mano. L'ho domato a tal punto che, la sera, mi è quasi dispiaciuto sgrovigliarmene fuori. Poi, visto che Antonella si era messa a girare a piedi nudi nei sandali e nessun pasdaràn le aveva detto niente, anche Lucia si è tolta i calzerotti e ha esclamato sgomenta: "Ma che strano, mi sento così, be', così poco protetta". Potrà mai l'abitudine trasformare in normale il fastidioso e anche l'insopportabile? Sì, lo può eccome.


Perciò, di nuovo a Teheran, cotta dalla stanchezza e seduta sul ricco pavimento di alabastro del mausoleo di Khomeini, faccio una bella predica a me stessa e anche all'ayatollah che, morto e ben rinchiuso in un sarcofago d'argento, non mi censurerà:

"Non è vero che il chador non ha importanza: segna le donne come altro dall'uomo, come corpi stranieri, misteriosi, inferiori. Tutta roba stravecchia, caro il mio ayatollah. La separazione dei sessi è incompatibile con i telefonini cellulari e il turismo internazionale: se prendi questi, devi abbandonare quella. Vedi, non sono solo gli studenti in Iran a voler consumare la stessa musica, le stesse magliette, la stessa libertà di comunicazione dei ragazzi occidentali. Guarda quante ragazze si dipingono le unghie dei piedi, senza calze nei sandali col tacco!, e sono anche di più quelle che portano le scarpe da ginnastica con la zeppona, come una Spice Girl... Un desiderio di globalizzazione e di uguaglianza che comincia dai piedi non può metterci molto a arrivare alla testa".

 


 

articolo pubblicato su Amica, n. 40, 29 settembre 1999

Testo e fotografie di Carmen Covito

Tutti i diritti riservati

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