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Trovato a Burmarina
(Tell Shiuk Fawqani) il primo palinsesto della storia


Nel nostro immaginario postmoderno e di massa, in cui tutti i livelli del tempo si confondono in un presente piatto come lo schermo dei televisori più nuovi, l'archeologo diventa quasi naturalmente l'ultimo eroe possibile. Scava fuori tesori sepolti da millenni e ne arreda i musei per dilettarci gli occhi, o no?, e le maledizioni dei faraoni non gli fanno un baffo, anzi ci scrive sopra romanzi di successo; combatte con amazzoni redivive, scorpioni, tigri, colleghi gelosi.
Per questo sono andata nel Paese di Bengodi dell'archeologia moderna, in Siria: per demolirmi un po' di pregiudizi.
E anche perché, tra le sette missioni italiane che, da Ebla in poi, ci stanno lavorando, c'è la missione diretta da Frederick Mario Fales, epigrafista e storico del Vicino Oriente Antico e autore insieme ai suoi studenti di un libro concepito come una vera e propria guida cultural-turistica (Siria, guida all'archeologia e ai monumenti, Marsilio, pagg. 331, lire 55.000), un esempio senz'altro originale di buona informazione e di divulgazione seria.

Il libro, strutturato per epoche e per siti, ha un unico difetto: tra le città perdute e ritrovate non è ancora descritta quella scoperta proprio dai suoi autori. In realtà, a ben cercarla, Burmarina c'è: però è nascosta tra gli "scavi in corso" sotto il suo nome attuale, Tell Shiuk Fawqani.
Ci arriviamo da Aleppo andando verso la frontiera turca e attraversando uno sconnesso ponte di barche sull'Eufrate.
La strada è polverosa, tra i campi di cotone che ricoprono l'ampia steppa siriana si vedono villaggi minimali, pecore rosse, tende di stile beduino abitate dai rifugiati curdi che in questa zona fanno lavori stagionali. Tra poco si dovranno spostare: è quasi pronta la nuova diga che cambierà il paesaggio, sommergendo in un lago artificiale molti antichi insediamenti.
In cinque anni di scavi "di salvataggio" sulla collina di Tell Shiuk Fawqani in collaborazione con l'archeologo francese Luc Bachelot, la missione oganizzata dall'Università di Udine ha recuperato tutti gli strati di una piccola città fondata nel 3300 a.C. circa da coloni sumerici e diventata poi la Burmarina aramea che nell'850 il re neo-assiro Salmanassar III si vantò di aver conquistato.
Il tesoro di Burmarina stava in uno degli strati più recenti del "tell" formato dall'accumulo di costruzioni e di ricostruzioni successive: 150 tavolette del primo millennio a.C., l'archivio del mercante She-Ushni, un archivio bilingue in cui i caratteri cuneiformi dei dominatori assiri e l'alfabeto arameo degli sconfitti erano usati entrambi, in alternanza oppure compresenti come una traduzione con testo a fronte.
Quest'anno, sui caratteri incisi nell'argilla l'epigrafista ha scoperto tracce di inchiostro: note o aggiunte posteriori che sembrano prefigurare il metodo di riscrittura poi applicato a papiri e pergamene. A Burmarina, insomma, c'è il prototipo di tutti i palinsesti.
In attesa di saperne di più, gironzolo sul tell conciata grossomodo come Lara Croft (che nel videogioco Tomb Raider è un'archeologa virtuale dalla pistola facile) e sentendomi molto Agatha Christie (che da queste parti venne a meditare Morte in Mesopotamia col marito archeologo Max Mallowan), ma mi tengo coperta con un velo tipo Lawrence d'Arabia (che all'inizio del secolo scavava qui di fronte la cittadella ittita di Karkemish), perché il sole picchia duro.
E tramonta prestissimo: per non sprecare ore di luce, sveglia alle cinque e mezzo del mattino, fuori tutti dai sacchi a pelo, avvolgimento rapido di kefie o fazzoletti in testa e via, su per i ripidi pendii della collina. Giovani o giovanissimi gli archeologi, qui. Sui due opposti versanti del sito, Marta Luciani e Daniele Morandi, poco più che trentenni (e di chiarissima competenza: li guardi lavorare ed è come aver letto una dozzina di manuali), dirigono due squadre formicolanti con arnesi da sterro e scopettini e secchie fatte di copertone di camion e le cazzuole dette "mustarine" e un teodolite elettronico.
Rilevati i reperti in posizione e in quota, si procede a rimuovere i pavimenti già indagati, capiti, misurati, fotografati, disegnati e messi in pianta stratigrafica. Emergono livelli su livelli di edifici. Sul lato Eufrate si vede un quartiere del Bronzo Antico (3100-2900 a.C.) con la strada centrale e i vicoletti e duecento anni di case sovrapposte attorno a un tempio-sala di riunione a due corpi salienti.
Dall'altro lato, a picco sotto i resti della casa di She-Ushni, si sta scavando un ampio insediamento artigianale dell'Età del Ferro, con botteghe e fornaci. E anche con forni per il pane esattamente identici ai "tannur" usati ancora adesso dai contadini delle fattorie qui attorno, costruite con mattoni crudi esattamente uguali ai mattoni con cui si costruiva cinque millenni fa: un "parallelo etnografico" che certo Lara Croft non noterebbe (troppo occupata a sparare alle tigri) ma che agli archeologi veri permette di osservare dal vivo i materiali che hanno prodotto il tell e come si comportano nei crolli.
Ogni giorno, schiantata da un attacco congiunto di vertigini e fascino dopo solo due ore in bilico sull'orlo del passato, ridiscendo di corsa al livello del suolo.
Sosta obbligata alla latrina da campo, che è un parallelo etnografico anche quella (muri filologicamente di fango misto a paglia, scomodità suggestiva; stando qui accoccolati si fanno dei romanzi storici mentali non inferiori a quelli di Christian Jacq), poi vado a Casa Scavi per ronzare un po' attorno ai tre disegnatori e al ceramigrafo computerizzato (di invenzione italiana, accelera la classificazione delle forme dei vasi e innalza di una spanna l'orgoglio nazionale: l'ho visto rimirare attentamente da un gruppo di archeologi tedeschi in visita di studio).
Schivo i bambini delle fattorie che mi strillano "ciau" in italo-siriano, aggiro con cautela il magazzino dei reperti (tre vipere in esso reperite, uccise due, la terza è ancora dentro) e mi fermo invariabilmente invidiosissima a contemplare l'Alessandro Canci, antropologo fisico, che sta grattando fuori da una giara i resti di uno scheletro parlante: vorrei parlarci anch'io, ma a me no, questi ossami non mi dicono niente, e a lui invece raccontano cose interessantissime su abitudini alimentari, malattie, mestieri e riti funerari dell'antica città.
Le discipline coinvolte in un progetto archeologico moderno sono, infatti, parecchie: paleobotanica e paleozoologia, filologia, letteratura antica, paleochimica e fisica, geomorfologia... Vuoi vedere che questa archeologia ignota al grande pubblico non soltanto è la scienza del futuro ma si propone come un buon modello per gli studi del presente?
No, forse no: le accademie attestate su rocciose diffidenze verso le intersezioni interdisciplinari ne sarebbero tutte rivoltate, strato per strato, e messe allo scoperto.

 



articolo pubblicato sul Corriere della Sera, 30 dicembre 1998

testo e fotografie di Carmen Covito

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